Lo zen e il tiro con l’arco. L’importanza di “dimenticare se stessi”
“Il tiro con l’arco non mira in nessun caso a conseguire qualcosa d’esterno, con arco e freccia, ma d’interno e con se stesso. Arco e freccia sono per così dire solo un pretesto per qualcosa che potrebbe accadere anche senza di essi, solo la via verso una meta, non la meta stessa, solo supporti per il salto ultimo e decisivo.”
In questa frase molta parte del senso del libro “Lo zen e il tiro con l’arco” di Eugen Herrigel. Un libro di poche pagine, che racconta l’esperienza autobiografica dell’autore, un insegnante tedesco di filosofia, che decide di voler comprendere l’essenza della filosofia orientale. Approfitta di un periodo in cui gli viene affidata una cattedra in Giappone e si dedica all’apprendimento del tiro con l’arco, un’arte che diventa tramite per entrare in contatto con questa dimensione totalmente altra rispetto a quella occidentale. Il tiro con l’arco è una disciplina le cui caratteristiche consentono a chi la avvicina di capire davvero cosa significa recuperare la propria spiritualità eliminando tutto ciò che, di fatto, è superfluo e fuorviante rispetto alla realtà del vivere. Per noi occidentali lo zen può essere considerato una religione o anche una filosofia, ma in realtà è molto di più. Apprendere e introiettare lo zen significa assumere, nei confronti della vita, un atteggiamento completamente privo di tutto ciò che è esteriorità superflua, perché allontana dal nostro vero sé.
Occorre imparare a ritornare bambini, recuperare la spontaneità che caratterizza le nostre azioni quando ancora non siamo fagocitati da tutte le sovrastrutture che impongono pensieri volitivi prima delle azioni. Quando i bambini si muovono, giocano, compiono qualsiasi azione lo fanno spontaneamente, istintivamente e non necessariamente ciò che fanno è frutto di una premeditazione. Quando l’uomo torna bambino e impara di nuovo a “dimenticare se stesso”, impara a pensare senza pensare, ad agire senza agire, a volere senza volere. Lo sviluppo ‘spirituale’ che lo zen insegna è quello che consente di accettare che le cose accadano semplicemente perché accadono e non può essere diversamente.
“Questo stato, in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile — questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente «spirituale»”.
Raggiungere questa fase significa essere completamente presenti a se stessi e avere la capacità di compiere qualsiasi azione in una dimensione spirituale. In questo senso l’arciere non ha bisogno di arco, frecce, bersaglio e altri accessori.
È un romanzo di formazione che mette ben in evidenza cosa significa il rapporto allievo-maestro. Tra loro sono poche le parole e molto sta nell’osservazione e nell’imitazione paziente delle azioni che il maestro compie. Chiedere spiegazioni è un atteggiamento tipicamente occidentale che denota fretta e poca fiducia.
L’esperienza è ciò che davvero insegna, le parole non possono fare altro che raccontare qualcosa che può e deve essere solo vissuta.
“«La vera arte» esclamò allora il Maestro «è senza scopo, senza intenzione! Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà l’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che non fa non avvenga».”
L’occidente è talmente imbevuto di razionalità e ‘premeditazione’ da avere la presunzione di pensare che le cose accadono solo perché siamo noi a farle accadere e non perché sono già scritte ed è così che deve essere. L’accadimento delle cose non è guidato dalla volontà, ma dalla consapevolezza della spiritualità delle cose stesse.
E. Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco, Adelphi, 1987, pp. 106, € 9.00