Tredici. Dall’era dell’accesso all’era dell’eccesso
“Ciao a tutti. Spero per voi che siate pronti, perché sto per raccontarvi la storia della mia vita. O meglio, come mai è finita. E se state ascoltando queste cassette è perché voi siete una delle ragioni. Non vi dirò quale nastro vi chiamerà in causa. Ma non preoccupatevi, se avete ricevuto questo bel pacco regalo, prima o poi il vostro nome salterà fuori… Ve lo prometto.”
Queste sono le prime parole della prima delle sette audiocassette che Clay Jensen trova sulle scale di fronte a casa. La voce è quella di Hannah Baker, la compagna di liceo che qualche giorno prima è morta suicida. Clay, innamorato della ragazza, scopre in questo modo di essere anche lui uno dei tredici motivi che hanno spinto Hannah al suicidio; inizia ad ascoltare i nastri senza sosta e scopre così una verità che non aveva mai nemmeno lontanamente immaginato. Pensare a una freddezza e a una lucidità simili in una persona che sta per compiere il gesto estremo del suicidio è, per certi aspetti, poco probabile, ma come espediente narrativo, è decisamente efficace. L’alternarsi continuo delle registrazioni, che lo spettatore ascolta direttamente dalla voce di Hannah, con i commenti e le sensazioni di Clay anch’esse esposte in prima persona, consentono di mettere a confronto, contemporaneamente, due punti di vista importanti per capire come una stessa situazione possa essere vissuta ed interpretata in modi totalmente diversi e inconciliabili.
Una vicenda del tutto attuale, raccontata in maniera cruda, perché questo è il solo modo attraverso il quale rendere l’idea di quanto possa essere devastante la condizione di chi è vittima di bullismo, che diventa cyberbullismo.
Gli spunti di riflessione sono davvero molti. Tredici racconta la quotidianità di un gruppo di adolescenti che frequentano tutti la stessa scuola, che sono più o meno amici tra di loro, che vivono nella stessa città e che, spesso hanno alle spalle famiglie incapaci, nella migliore delle ipotesi, di instaurare un vero e proprio dialogo. Dico nella migliore delle ipotesi, perché ci troviamo anche di fronte a famiglie la cui presenza è a dir poco devastante, come quella di Justin, tanto per citarne una. E poi c’è la scuola, che appare come una istituzione che non entra mai davvero nel merito dei sentimenti e delle vite dei suoi studenti. Sembra quasi un contenitore all’interno del quale le cose accadono senza che nessuno se ne accorga. I ragazzi sono lasciati in balia di se stessi e gli insegnanti intervengono, in maniera peraltro inefficace, solo quando non se ne può proprio fare a meno. L’esempio più inquietante è quando i genitori della ragazza suicida decidono di denunciare la scuola e preside e insegnanti hanno come unica preoccupazione quella di scagionarsi e di dimostrare che non avrebbero mai potuto prevedere nulla del genere. Nessuna preoccupazione per i ragazzi, ma solo la determinazione a trovare il modo per vincere la causa.
Il vero nucleo di questa storia però sono i giovani adolescenti.
Perché siamo arrivati a questa situazione? Come è possibile che gli adolescenti di oggi possano trovarsi invischiati in situazioni come quelle descritte, dalle quali non sanno come fare a difendersi e rispetto alle quali vedono il suicidio come unica possibilità di fuga?
Già nel 2000 Rifkin aveva definito, sia pur in ambito economico, la nostra epoca l’era dell’accesso definendo in questo modo il cambiamento che prevede il passaggio da un’economia basata sui principi di bene e proprietà, verso una dominata invece dai principi di cultura, informazione e relazioni. Oggi, dopo diciassette anni, direi che siamo passati dall’era dell’accesso a quella dell’eccesso di mezzi di comunicazione a nostra disposizione. Il che non è affatto un problema in quanto tale. Lo diventa, nel momento in cui siamo circondati, ventiquattro ore su ventiquattro, da mezzi di comunicazione che ci permettono di essere sempre ovunque con chiunque, ma non abbiamo nulla di importante da dirci. Questa immersione maniacale nell’eterno presente è la vera criticità. Gli adolescenti, oggi, sono inseriti in un contesto rispetto al quale il futuro non rappresenta più una promessa, ma una dimensione fatta di incertezze, insicurezze, precarietà. Sentimenti questi che rendono difficile anche solo immaginare una qualsiasi progettualità, ragion per cui le iniziative si svuotano di entusiasmo, le speranze appaiono prive di significato, la demotivazione cresce e con essa la noia.
In questa logica di ‘eterno presente’ anche i conflitti generazionali perdono di significato, perché se non esiste un futuro al quale pensare, non hanno nessuna ragion d’essere nemmeno il ruolo e l’autorità di genitori ed insegnanti di indicare la strada da seguire per passare dalla condizione di adolescenti a quella di adulti. L’antropologia e la sociologia, però, ci insegnano che una relazione sana tra giovani e adulti non può essere simmetrica e trattare gli adolescenti come propri pari, significa non contenerli e lasciarli soli di fronte alle loro scelte e alle loro ansie. Ogni generazione dovrebbe avere come obiettivo di creare le basi perché le generazioni successive si trovino in una condizione migliore, ma questo è possibile solo se ogni generazione si riconosce diversa da quelle che l’hanno preceduta e da quelle che verranno dopo. Se la generazione dei genitori si identifica con quella dei propri figli è chiaro che non ci può essere nessuna spinta verso una diversificazione, nessuna tensione verso un futuro, se non migliore, quanto meno diverso. Questo è il guaio dell’eterno presente.