Se questo è un uomo
“questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi d’accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”.
Queste sono parole che Primo Levi scrive nella prefazione del suo libro “Se questo è un uomo” nell’edizione pubblicata da Einaudi nel 1989. Parole che faccio mie per precisare, a mia volta, che questo mio scrivere di un libro così fondamentale non aggiunge nulla a quanto di importante è già stato scritto da recensori ben più autorevoli di me. Ma è una testimonianza talmente potente e di tale bellezza, che non si può non rimanerne toccati profondamente. In questo libro, che tutti dovrebbero leggere almeno una volta, Primo Levi racconta la sua esperienza nei campi di distruzione che va dal 1944, anno in cui viene internato, al gennaio 1946 quando finalmente gli alleati mettono fine a questa tragedia che nessun aggettivo potrebbe descrivere in modo adeguato ed esaustivo. Una esperienza breve se paragonata a quella di tanti altri ebrei, ma lunghissima, eterna. Un’esperienza talmente assurda da condizionare tutta la vita dell’autore e di tutti coloro che hanno avuto la sfortuna di prenderne parte. Primo Levi racconta con un tono pacato la quotidianità di Auschwitz, alla quale una follia di fatto ingiustificata lo ha costretto. È il racconto autobiografico dello scorrere lentissimo del tempo nel campo e del susseguirsi delle attività che lo scandivano. All’interno del campo di lavoro è tutto organizzato con una precisione maniacale e, avulso dalla realtà quella vera, costituisce un ecosistema perfettamente autonomo che potrebbe addirittura sembrare dotato di una sua logica. La vera sfida è mantenere la propria autonomia di pensiero in una situazione in cui ognuno diventa nessuno. Chi entra nel sistema dello sterminio smette di essere se stesso, smette di essere una persona e rimane solo un numero, quello tatuato sull’avambraccio, l’unico elemento identificativo che ha senso nel lager. Vivere, ma forse è meglio dire sopravvivere, è un’impresa gigantesca: appena arrivati, perché non si conoscono le logiche del campo, mano a mano che passa il tempo, perché
“di fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio”.
Io vorrei sottolineare la pacatezza e il livello culturale con cui Primo Levi, in “Se questo è un uomo“, descrive una situazione che va ben al di là di qualsiasi ragionevolezza. Sopravvivere in un campo di concentramento significa essere continuamente in uno stato di allerta mentale attraverso il quale provare a far fronte alla fatica, alla fame, alla sete, al freddo, alle percosse, al non potersi fidare di nessuno, alla privazione degli affetti e della propria stessa identità. Ad Auschwitz è tutto pericoloso, è tutto talmente assurdo che ogni giorno si rischia di morire “per un sì o per un no”, perché si viene mandati a sinistra e non a destra, perché si scende dal vagone del treno dalla parte sbagliata. C’è qualcosa di incredibile nel modo di raccontare di Primo Levi. Il suo stile è essenziale, asciutto, descrittivo, diretto e privo di qualsiasi espediente che possa allontanare da una descrizione più veritiera possibile di ciò che è stato il lager per chi lo ha vissuto. Allo stesso tempo, non c’è mai nessuna forma di rancore, di rabbia, di invettiva fuori controllo. Credo sia proprio questo che rende così efficace questa testimonianza, così potente questa denuncia. Primo Levi scrive “Se questo è un uomo”, perché
“il bisogno di raccontare agli «altri», di fare gli «altri» partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore”.
Primo Levi racconta in un modo che crea empatia. È impossibile rimanere distaccati e non provare sensazioni forti. La sua capacità descrittiva è tale per cui il lettore vede Auschwitz, il convoglio che arriva, le baracche sovraffollate, gli ebrei magri, sofferenti, annientati, sente il freddo e il vento che non danno tregua, la fatica di un lavoro estenuante che non ha nessuna funzione reale se non quella di essere anch’esso un metodo di selezione. Tutto questo è raccontato con la stessa potenza visiva che hanno i documentari che propongono, in un silenzio assordante, sequenze di immagini incredibili. Non ha senso commentare, ha senso documentare, portare a conoscenza di tutti fatti realmente accaduti esattamente così come sono accaduti. Primo Levi non lascia spazio a reazioni, invettive, condanne, giudizi personali. Vuole che a parlare siano i fatti. È un racconto autobiografico e documentale, in cui occorre riportare tutto, perché ogni accadimento, anche quello apparentemente più insignificante, è in realtà un tassello fondamentale per comprendere fino a che punto l’uomo può arrivare, per comprendere quanto sia facile la demolizione dell’uomo per opera di un altro uomo, per comprendere “la banalità del male”. “Se questo è un uomo” di Primo Levi è un capolavoro che obbliga a riflettere sul ‘senso’: sul senso delle azioni, delle situazioni, dei pregiudizi, dell’etica, dei comportamenti, della vita e della morte, sul senso delle parole. “Se questo è un uomo” è un capolavoro della memoria individuale e collettiva, un monito a non dimenticare e a non considerare nulla come impossibile, a riflettere se, in quelle condizioni, questo è un uomo.
P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 2014, pp. 214, € 12.00