Otto mesi a Ghazzah Street
Arabia Saudita, Gedda, Ghazzah Street. È una strada piccola all’interno di un quartiere non lussuoso ma nemmeno squallido. I piccoli condomini, alti al massimo tre piani, sono circondati da un muro, per cui è difficile intravedere chi ci abita e anche sapere se gli inquilini sono in casa. A Ghazzah Street non c’è mai nessuno fermo a chiacchierare. I vicini si conoscono di vista, per una breve apparizione sul balcone o sulla terrazza. Le donne parlano al telefono.
Otto mesi a Ghazzah Street. È qui che Frances Shore si trasferisce per seguire Andrew, il marito ingegnere, al quale viene affidato un incarico in Arabia Saudita. Da un giorno all’altro si ritrova catapultata in un condominio, detto il Capolinea, situato in Ghazzah Street.
Un condominio enorme, abitato da persone completamente diverse da lei per cultura e religione. Tutte, al Capolinea, sono persone di passaggio che, come lei e il marito, si fermano giusto il tempo di portare a termine qualche incarico, racimolare un po’ di soldi e tornare da dove sono venute. Nonostante ciò, Frances vuole capire, vuole conoscere questa realtà così diversa dalla sua. È donna e, in quanto tale, è costretta a vivere reclusa in casa. Non può svolgere il suo lavoro di cartografa, non può uscire da sola per passeggiare né, tanto meno, per fare spesa, non può avere una vita sociale al di fuori delle mura del suo appartamento. Le sole persone che può frequentare sono uomini d’affari occidentali, colleghi del marito, oppure le vicine di casa con le quali organizza cene e rare passeggiate nei suq, sempre rigorosamente accompagnate. Per rompere la monotonia di questa nuova condizione di vita, caratterizzata dalla noia e dallo straniamento che deriva da una condizione di quasi totale segregazione, Frances comincia a scrivere un diario, nel quale annota le sensazioni e le riflessioni relative a un mondo nuovo che fatica a comprendere e che non riesce ad accettare.
Frances, comincia a prestare attenzione ai rumori che provengono dall’appartamento del piano di sopra che dovrebbe essere disabitato. Le sue indagini la porteranno a scoperte disastrose e violente per la sua stessa permanenza a Ghazzah Street.
È un romanzo che la critica ha definito scioccante, definizione che mi sento di condividere.
Hilary Mantel è Frances e “Otto mesi a Ghazzah Street” è un romanzo autobiografico, in cui racconta la storia della sua permanenza proprio lì a Ghazzah Street durata quattro lunghi anni.
È una testimonianza molto preziosa, che una voce femminile fornisce, relativa a un mondo in cui proprio l’essere donna significa dover rinunciare a tutti diritti, umani e sociali. La realtà saudita impone una rigida osservanza di prescrizioni sociali e giuridiche che si applicano, indistintamente, alle donne arabe e a quelle straniere. Le donne costituiscono una parte della popolazione totalmente invisibile la cui unica ragione di vita è l’essere sottomesse all’altro sesso che ha su di loro potere di vita e di morte.
È un romanzo che Hilary Mantel ha scritto nel 1988, che sembra scritto ieri e che finalmente Fazi ha tradotto e pubblicato. È un romanzo di denuncia, che forse sarebbe più corretto leggere come documento di una realtà che ancora oggi risulta difficile da comprendere a chi non ne faccia parte. Una realtà che occorre comunque conoscere, perché esiste, che ci piaccia o no, che la capiamo o no, che la condividiamo o no.
H. Mantel, Otto mesi a Ghazzah Street, Fazi, 2017, pp. 334, € 19.00 (trad. G. Oneto)