Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola
La prima volta che ho studiato questo libro è stato nel 1991. Ero all’università, frequentavo la facoltà di lettere classiche e quindi il passaggio dall’oralità alla scrittura era un fenomeno importantissimo e affascinante, oltre che necessario al mio percorso di studi. Un libro che mi ha catturato immediatamente e che continua a farlo anche oggi, tanto è vero che l’ho riletto proprio in questi giorni. Walter J. Ong con “Oralità e scrittura”, non entra nel merito della diatriba che, da sempre, cerca di decidere quale delle due, oralità o scrittura, sia più importante. Cerca piuttosto di rispondere agli interrogativi, tanto interessanti quanto complessi, che indagano le relazioni tra le dinamiche di verbalizzazione delle culture totalmente prive di scrittura e quelle della verbalizzazione scritta. Lo sviluppo umano, evidentemente, è arrivato ad un punto in cui la scrittura è diventata necessaria, ma è fuori discussione che una nuova tecnologia, la scrittura, anziché eliminare la vecchia, l’oralità, ne abbia aumentato le scelte. Il passaggio da una cultura a oralità primaria a una chirografica è stato graduale. I tratti caratterizzanti queste due forme di cultura sono estremamente diversi tra loro, ma il passaggio dall’una all’altra è stato possibile soltanto grazie alla fitta rete di relazioni e interazioni che si sono stabilite tra i due sistemi di comunicazione. Questo passaggio non è solo di natura tecnica, ma è una trasformazione profonda di pensiero. “La scrittura ristruttura il pensiero”.
Sì, perché come fa notare McLuhan, il passaggio parlare-scrivere significa anche passaggio orecchio-occhio. La dimensione dell’ascolto diventa spazio della vista. Per farci capire meglio l’entità di questa trasformazione, Ong delinea i tratti distintivi principali delle due culture. Ci dice, ad esempio, che nei popoli senza scrittura, “il suono esiste solo nel momento in cui sta morendo”; il suono e la parola sono strettamente legati a chi li pronuncia. Come è possibile quindi che chi ascolta possa trattenere e trasformare in patrimonio culturale qualcosa di così effimero senza il supporto di strumenti duraturi quali libri, manuali, testimonianze scritte?
La risposta è abbastanza semplice. Nelle culture orali, la parola è azione. I cantori non si limitavano a recitare a voce alta, ma il loro canto era di fatto una azione, una messa in scena che permetteva all’uditorio di “sperimentare” il racconto, di viverlo ritrovandosi totalmente coinvolto nella situazione narrata.
Questo ascolto-azione si fissava nella memoria attraverso la ripetizione sia dell’esperienza che del linguaggio con cui veniva raccontata. Ecco spiegata la necessità della formularità espressiva, ecco perché l’eroe non era definito semplicemente eroe, ma eroe valoroso e perché non si parla mai solo della principessa, ma sempre della bella principessa. Formularità, ricorsività e ripetizione sono espedienti tecnici necessari per chi racconta, ma anche per chi partecipa al racconto; è indispensabile creare situazioni facilmente identificabili che diventino esperienza e conoscenza condivisa per il gruppo.
Cosa succede quindi quando una cultura a oralità primaria, come quella di Omero ad esempio, si trova a dover costruire “un sistema codificato di marcatori visivi” utili a costruire una ‘rappresentazione’ più stabile e duratura nel tempo? Capiamo bene che il passaggio dalla narrazione orale alla codifica scritta significa una modifica sostanziale della dimensione spazio temporale: il qui e ora della parola diventa un sempre e ovunque della scrittura. Una vera e propria rivoluzione nella quale il mezzo di comunicazione incide pesantemente sul contenuto e anche sulla struttura mentale necessaria a questo nuovo meccanismo. La formularità espressiva non serve più, quindi il linguaggio si alleggerisce e, nella mente, si crea lo spazio per le regole che preludono al ragionamento analitico. È come se la scrittura fosse una prima forma di hard disk esterno, nel quale la mente può salvare tutto quanto per attingervi ogni volta che ne ha bisogno.
La recitazione orale era un fenomeno di gruppo, la lettura di un testo scritto è un’operazione individuale. Il passaggio dall’oralità alla scrittura, lo abbiamo già detto, è graduale. È un processo lento, durante il quale, per un lungo periodo, le due modalità di espressione si sono influenzate a vicenda. Basti pensare che Sant’Agostino, molti molti anni dopo l’età dei poemi omerici, rimase sconvolto per aver visto Sant’Ambrogio leggere solo con gli occhi e non più a voce alta.
Un altro passaggio importantissimo è l’introduzione della scrittura tipografica. La scrittura manuale lascia il posto alla stampa (siamo nel XV secolo) dove, la maggiore leggibilità dei testi e la meccanizzazione del processo, diffondono la pratica della lettura in un pubblico ben più vasto che, oltretutto, riesce a leggere con maggiore facilità e rapidità.
Dopo la tipografia, l’elettronica.
“La trasformazione elettronica dell’espressione verbale ha accresciuto quel coinvolgimento della parola nello spazio che era iniziato con la scrittura, e ha contemporaneamente creato una nuova cultura, dominata dall’oralità secondaria.”
Oralità secondaria intesa come il meccanismo attraverso il quale si ricrea il senso di appartenenza al gruppo (pensiamo ad esempio agli slogan politici o pubblicitari). Ong, con grande onestà intellettuale, non approfondisce oltre il discorso della comunicazione elettronica, perché di fatto lo percepisce come un fenomeno troppo vasto per entrare nel suo libro. Ciò che appare comunque chiaro è che gli ambienti artificiali/virtuali della comunicazione online rappresentano e rappresenteranno sempre di più un segno di svolta dalla comunicazione acustico-visiva, quasi sempre a senso unico, verso una comunicazione-interazione sempre più veloce e globalizzata non più a senso unico, ma bidirezionale.
L’ho precisato in apertura e lo ribadisco. Ong non si pone il problema di stabilire cosa debba essere ritenuto superiore tra oralità e scrittura. Sostiene che l’oralità non è un ideale e non lo è mai stato.
“Accostarsi ad essa in maniera obiettiva non significa augurarla ad alcuna cultura come condizione permanente. La scrittura apre alla parola e all’esistenza umana possibilità inimmaginabili senza di essa.”
Aggiunge anche:
“l’oralità non è disprezzabile. Essa può creare opere al di là della possibilità degli alfabetizzati.”
La letteratura, la filosofia e la scienza non esisterebbero senza la scrittura, ma la poesia, l’epica, la mitologia, le favole non esisterebbero se non ci fosse stata la cultura orale. Le due culture assolvono a diverse esigenze comunicative e
“le dinamiche oralità-scrittura sono parte integrante della moderna evoluzione della coscienza verso una maggiore interiorizzazione e anche verso una maggiore apertura.”
Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 286, € 22.00 (trad. A. Calanchi)