Il lato oscuro di Facebook
“Devo confessare: io amo Facebook”.
Questa l’affermazione con cui Federico Mello inizia “Il lato oscuro di Facebook”. Un saggio che analizza la piattaforma sulla quale si trovano più di due miliardi di persone. Una popolazione alla quale Facebook ha rivoluzionato la vita e ha permesso di fare cose altrimenti impensabili come
“farsi conoscere, informarsi, confrontarsi con gli altri, condividere idee e punti di vista, sapere qualcosa in più dei propri amici, di chi si conosce (e di chi non si conosce), di farsi un’idea sulle opinioni e sui sentimenti generali, di sapere cosa succede nel mondo, come cambia ciò che ci è attorno.”
Ma questo è il punto di vista dell’utente normale, che non ha nessun altro interesse che utilizzare la piattaforma per quello che permette di fare. Un punto di vista che, necessariamente, non coincide con quello dei “proprietari” di Facebook.
Se fossimo anche noi azionisti la domanda inevitabile sarebbe:
“come può Facebook guadagnare il più possibile? Ovvero: come può Facebook monetizzare al massimo l’esperienza degli utenti, come può far sì che gli iscritti risultino produttivi, come possono le interazioni online risultare fruttuose, come si può estrarre da queste il massimo valore possibile?”
È proprio rispondendo a queste domande che Federico Mello si addentra nel lato oscuro di Facebook, ovvero nell’ingranaggio potente e sofisticato che trasforma Zuckerberg nel proprietario di una macchina commerciale potentissima. Ciò che permette a Facebook di aumentare i propri profitti non sono la pubblicità, la vendita di prodotti o servizi, ma la capacità di catturare, trattenere e aumentare il tempo che gli utenti trascorrono sulla piattaforma. Non è un problema di qualità del tempo, ma solo ed esclusivamente di quantità.
Per raggiungere questo obiettivo, i programmatori hanno imparato ad utilizzare tecniche psicologiche e comportamentali in grado di creare dipendenza e di alimentarla come una
“enorme slot machine sociale, che distribuisce premi e gratifiche non per farci vincere”, ma per aumentare il nostro “time on machine”.
La verità è che per Facebook siamo come i topi bianchi del grande esperimento sociale, che si ingegnano sempre di più per capire quali sono i meccanismi e i comportamenti in grado di farci ottenere il massimo della gratificazione il più spesso possibile. Ma c’è di più. I meccanismi che funzionano nel nostro cervello, quando si tratta di gratificazioni, non sono tanto diversi da quelli dei nostri antenati. I “punti cardinali” che orientano il piacere sono
- la caccia con cui soddisfiamo la fame di informazioni
- la pesca che presuppone un atteggiamento passivo (e in quanto tale pericoloso) con il quale “scommettiamo” sulla presenza di gratificazioni provenienti da altri
- la tribù con cui soddisfiamo il nostro protagonismo e il riconoscimento che riceviamo all’interno dei gruppi a cui apparteniamo
- l’ordine con cui soddisfiamo il desiderio intrinseco di apparire competenti
- il campo “personal” con cui ci procuriamo soddisfazioni personali che si basano su relazioni private, gestite però pubblicamente in modo tale che risultino chiare solo a chi effettivamente sa, mentre rimangano precluse al resto del nostro mondo virtuale
Tutte le azioni che compiamo durante la nostra permanenza su Facebook (mettere like, condividere, commentare, richiedere l’amicizia, mandare messaggi privati, …) sono riconducibili ad almeno una di queste cinque categorie, e confermano la regola che
“anche la dipendenza è una «forma di apprendimento»”
Federico Mello non condanna Facebook; del resto, ha confessato, subito in apertura, di esserne innamorato. La sua posizione è in linea con quella di Melvin Kranzberg secondo il quale
“una tecnologia non è mai né buona né cattiva, ma non è neanche neutra”,
perché ciascuna si porta dietro una gamma limitata e condizionante di usi possibili. Ad esempio un accendino ci permette di accendere un fuoco, ma è totalmente inservibile quando ci dobbiamo lavare i denti. Se siamo d’accordo con questa posizione, dobbiamo anche accettare che non esiste, perché non è possibile, una situazione completamente neutra e asettica. Qualsiasi scelta, anche la più banale, ha a monte il sistema delle “architetture di scelta” ovvero dell’organizzazione dei dettagli la cui sistemazione è in grado di provocare nelle persone la scelta voluta tra una gamma di opzioni solo apparentemente equivalenti.
L’architettura di scelta di Facebook deve portare noi utenti a rimanere connessi più tempo possibile su questo social e, per farlo, sa che deve dosare con grande maestria le gratificazioni solo apparentemente casuali, ma mai totalmente prevedibili e scontate.
“Ci facciamo caso raramente, ma non c’è niente di più della casualità che ci attira e ci ammalia. Il caso ci strega in ogni sua forma e manifestazione: «L’incertezza è ciò che, del mondo, gli esseri umani più adorano e insieme detestano. Detestiamo l’incertezza perché può comportare delle perdite, ma l’adoriamo perché introduce il fattore “forse” – forse vincerò la prossima volta, forse le cose non stanno andando così male come sembra, e così via»”
C’è un solo modo per provare ad arginare questo gigantesco ingranaggio che è Facebook e non è uscirne.
Secondo Mello non possiamo più fare finta che Facebook non abbia un lato oscuro e non possiamo più fare finta di non essere cavie utilizzate per ottimizzare in continuazione questa macchina da soldi. La difesa sta solo nell’assunzione di consapevolezza di quali meccanismi governano questa “ossessione collettiva” che abbiamo costruito e della quale ci illudiamo di avere il controllo.
F. Mello, Il lato oscuro di Facebook, Imprimatur, 2018, pp. 127, € 14.00