La guardia, il poeta e l’investigatore. Il potere della letteratura e la libertà della poesia
Non avevo mai letto nulla di questo scrittore, ma credo che dopo questa esperienza leggerò anche gli altri suoi libri.
L’autore Lee racconta la storia vera di un poeta suo connazionale, Yun Dong-ju, morto nel carcere di Fukuoka alla fine della seconda guerra mondiale. È il luogo di detenzione nel quale sono raccolti tutti i coreani che, secondo la propaganda giapponese, sono pericolosi criminali che hanno messo a repentaglio l’integrità dell’impero. Ai detenuti è proibito tutto, in particolare non possono parlare nella loro lingua, scrivere e leggere libri. In questo scenario si consuma il delitto che mette in relazione tra loro la guardia, il poeta e l’investigatore.
Ad essere uccisa è la guardia Sugiyama Dozan, un secondino analfabeta, crudele e spietato che svolge il ruolo di censore all’interno della prigione. È lui che decide che cosa i detenuti possono leggere oppure no, che cosa possono scrivere oppure no. Incaricato delle indagini è l’investigatore Watanabe Yuichi, una giovane guardia non sadica, ma costretta dalla guerra e dal sistema a sorvegliare i detenuti e a trattarli con crudeltà.
Fin qui tutto logico, una vittima e un investigatore. Ma il poeta? Cosa c’entra il poeta? È Yun Dong-ju, poeta coreano realmente esistito, prigioniero a Fukuoka, del quale viene trovata una poesia in tasca della guardia assassinata:
“Come uno straniero sono venuto / come uno straniero vado di nuovo via…”
Non aggiungerei altro e lascerei al lettore la soddisfazione di dipanare l’intricata matassa.
“La vita può non avere una ragione precisa ma la morte esige chiarezza, una ragione certa, non come prova di sé, ma a beneficio dei sopravvissuti.”
Gli elementi del giallo ci sono tutti. Ma questo è anche, e soprattutto, il romanzo delle emozioni e delle parole. Il fulcro di tutto è il poeta, perché attorno a lui ruotano la guardia che verrà assassinata e l’investigatore incaricato di trovare il colpevole. I tre personaggi hanno una caratterizzazione molto precisa. Sugiyama è quasi analfabeta e, quasi per un contrappasso dantesco, svolge la funzione del censore; colui che praticamente non conosce le parole ha il compito di vigilare proprio su quelle. L’investigatore ha un passato da libraio e quindi appassionato di letteratura, di romanzi e di poesia che per lui e per la madre erano stati una ragione di vita e uno scudo di difesa contro le brutture della guerra. Il poeta Yun Dong-ju ha le parole nel cuore e le utilizza per mantenere in vita la sua essenza e per creare un dialogo con il resto del mondo che lo ha privato della sua lingua e di conseguenza della sua identità. Emozioni e parole. Sì, perché le parole hanno un ruolo fondamentale nella vita, nelle emozioni e nell’identità.
“Quindi una rosa chiamata con un altro nome avrebbe continuato a mantenere inalterato il suo profumo, ma non chiamandosi più così non sarebbe più stata una rosa. Anche la rosa più profumata con il passare del tempo perdeva il suo profumo e appassiva, ma il nome ‘rosa’ avrebbe continuato a evocarne la bellezza e la fragranza.”
In questa frase la potenza e il limite allo stesso tempo della parola, soprattutto in relazione al tema dell’identità. Non a caso, nella prigione, ai coreani era stato imposto un nome giapponese ed era proibito utilizzare la propria lingua per esprimersi. Una proibizione grave, molto grave, che non elimina completamente l’identità e l’essenza delle persone, questo è vero, ma ne altera comunque l’equilibrio.
Jung-myung Lee, con questo romanzo, ci offre un’esperienza profonda e ci dà la possibilità di riflettere su molti aspetti della vita. Lo fa con grande sapienza, con leggerezza ma anche con profondità, con umiltà e con grande attenzione.
Il finale, duro e inaspettato, ci obbliga a pensare.
Jung-myung Lee, La guardia, il poeta e l’investigatore, Sellerio, 2016, pp. 387, € 16.00 (trad. B. Merlini)