L’uomo artigiano. La differenza tra fare e saper fare
L’uomo artigiano di Richard Sennet è un libro molto denso, che racconta una storia importante. La storia della parola “artigiano” che non è solo una parola, ma è un atteggiamento culturale e, prima ancora, una condizione umana.
“Nella vita ce la si può fare benissimo senza dedizione. L’artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno.”
Nel mondo greco l’artigiano era definito demiourgos, parola che definisce l’idea di ‘prodotto (ergon) appartenente al popolo (demios)’. L’artigiano dell’età arcaica occupava la fascia sociale che sta a metà tra i ricchi, che non avevano bisogno di lavorare, e gli schiavi ed erano coloro che sapevano usare congiuntamente la testa e la mano. Le abilità tecniche venivano tramandate da una generazione all’altra e le attività artigiane erano tutte orientate all’applicazione di un criterio di eccellenza finalizzato conseguimento della qualità. Il sistema di apprendimento era tutt’altro che chiuso e sempre uguale a se stesso. Il raggiungimento della qualità come marchio di identità dell’artigiano imponeva una continua evoluzione tecnica che permettesse di rimanere al passo con i tempi e di risolvere le criticità che i mutamenti imponevano.
Questo meccanismo funzionava alla perfezione, perché era un sistema integrato, in cui la maestria tecnica affondava le proprie radici in abilità sviluppate al massimo livello.
Ma “che cosa succede quando viene introdotta una separazione tra mano e testa, tra tecnica e scienza, tra arte e mestiere”?
Cosa succede quando l’attività pratica viene vista come irrilevante rispetto a quella concettuale?
Succede che vengono meno i quattro aspetti fondanti della maestria, con cui indichiamo “la capacità di fare un buon lavoro per il desiderio di farlo” (craftsmanship in inglese):
- Tempi del lavoro artigianale. Il ritmo è lento e lo sviluppo delle competenze segue un andamento, un movimento circolare, che va da una fase tacita a una esplicita per tornare a una tacita. Il processo di apprendimento di una competenza non è per nulla casuale. Per raggiungere un obiettivo occorre stabilire una routine; il passo successivo è riflettere su di essa, per capire se rappresenti il modo migliore di procedere o se non ci sia un metodo più efficace. La riflessione serve per analizzare e mettere a punto il repertorio, o inventario di competenze, attraverso le quali non è più necessario fermarsi a riflettere se sia meglio agire in un modo o in un altro. In altre parole, il trasferimento di competenze richiede tempo, perché può avvenire solo se ci si concentra sull’importanza del processo. Fare una cosa, riflettere su ciò che si è fatto e farla in un altro modo, significa costruirsi un bagaglio di tecniche diverse, per realizzare lo stesso compito. Significa acquisire non una sola, ma più competenze.
- Stretta connessione tra problem solving e problem finding. Imparare a svolgere con maestria una attività significa dare inizio ad una narrazione, perché, imparato un passaggio, ci si concentra su quello successivo. In ambito lavorativo imparare a risolvere un problema non è un atto conclusivo. È indispensabile essere in grado di interrogarsi sui nuovi problemi che ogni soluzione porta inevitabilmente con sé. Sviluppare competenze, tecniche e non solo, è un processo ininterrotto che porta da una fase di problem solving ad una fase di problem finding, continuamente, in una sequenza che abitua a guardare avanti e ad innovare. Senza la curiosità di andare oltre non ci può essere né sviluppo di competenze né innovazione.
- Ruolo dell’immaginazione. Più in particolare la consapevolezza che “la cassetta degli attrezzi non è un luogo di apprendimento”. Si diventa più bravi quando gli attrezzi di cui disponiamo per risolvere un problema non sono perfetti e ad hoc per quel problema. L’unico vero limite all’espansione delle abilità è dato dall’immaginazione. Un altro esempio è rappresentato dalla differenza tra linguaggio denotativo e connotativo. Quello denotativo è un linguaggio tecnico, preciso, procedurale utilizzato per fissare le informazioni, ma che spesso non aiuta nell’esecuzione dell’atto pratico. È il linguaggio dei libretti di istruzioni, per intenderci. Il linguaggio connotativo, invece, è più evocativo, meno preciso e diretto, ma ha il potere di suggerire con più efficacia la pratica. È più adatto a comunicare che cosa significhi fare qualcosa. È il linguaggio che racconta l’esperienza, che lascia spazio all’immaginazione di chi racconta ma anche di chi ascolta, pur in un contesto tecnico di mestiere.
- Importanza della socialità. L’abuso della tecnologia che abbiamo a disposizione, spesso, si sostituisce alla comprensione reale delle cose e dei processi. Nelle botteghe artigiane classiche la tecnologia non era affatto bandita, anzi, ma non si è mai sostituita alla dimensione sociale della trasmissione della tecnica e dell’apprendimento. Gli artigiani hanno sempre mantenuto un ruolo attivo di fronte alla tecnologia e non hanno mai smesso di indagare i processi e il funzionamento delle cose. Oggi tutti utilizziamo la tecnologia, ma ben pochi di noi sanno esattamente come essa funzioni realmente.
Più una tecnologia è user-friendly meno bisogno ha dell’intelligenza umana per funzionare. Invece, non bisognerebbe mai smettere di chiedersi il perché delle cose.
Recuperare la connessione tra la testa e la mano, significa ricominciare ad essere artigiani ovvero persone a cui “sta a cuore il lavoro ben fatto per se stesso”. Viviamo nella società delle competenze e ci dimentichiamo dell’importanza di parlare anche di lavori qualificati. Continuiamo a pensare che i “lavori concettuali” abbiano più valore di quelli “manuali”, come se davvero non fosse necessaria una profonda connessione tra testa e mano. O, per meglio dire, come se davvero non ci fosse nessuna connessione tra testa e mano.
R. Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, 2013, pp. 315, € 12.00