L’isola del tesoro
Essendo stato incaricato dal conte Trelawney, dal dottor Livesey e dal resto della compagnia di mettere per iscritto tutti i particolari riguardanti l’Isola del Tesoro, dal principio alla fine, tacendo null’altro che la posizione dell’isola, e questo solo perché non è stato dissotterrato tutto il tesoro, prendo la penna nell’anno di grazia 17.. e torno al tempo in cui mio padre gestiva la locanda Ammiraglio Benbow, e il vecchio marinaio col viso bruciato dal sole e sfregiato da un taglio di sciabola prese alloggio sotto il nostro tetto.
Stevenson inizia così il racconto de “L’isola del tesoro”, un libro che da sempre si colloca, in maniera limitativa e per certi aspetti erronea, nella letteratura per ragazzi. Racconta un’avventura straordinaria, forse l’avventura per eccellenza e ricordo che, da bambina, è stato di gran lunga uno dei miei libri preferiti. Mi è tornato in mente di prepotenza proprio in questi giorni e ho deciso di leggerlo di nuovo, credo per la decima volta. Se da bambina mi era sembrato bello, adesso non esito a definirlo un capolavoro, ma non della letteratura per ragazzi, proprio della letteratura in quanto tale. L’occasione compositiva de “L’isola del Tesoro” è una mappa che Stevenson disegna su un pezzo di carta, per gioco, con il figliastro dodicenne Lloyd. La mappa e il tesoro: allo scrittore non occorre altro, perché nella sua testa prenda corpo l’intera vicenda e, a quel punto, non gli resta che raccontarla. Il finale di questa avventura è dichiarato subito all’inizio dallo scrittore stesso, perché durante l’avventura in mare alla ricerca del tesoro non ci si può distrarre pensando a come finirà. L’avventura è il viaggio e il lettore deve rimanere totalmente coinvolto nella navigazione che è reale e, come sempre, anche metaforica. È un po’ come quando anche oggi, a duemila anni di distanza, leggiamo l’Odissea: tutti sappiamo come va a finire e proprio per questo tutti rimaniamo completamente rapiti dalle avventure di Ulisse e dai personaggi che incontra.
Giorgio Manganelli afferma che
La natura delle avventure è di essere ‘possibili e irreali’; non reali e possibili come nel romanzo e neanche irreali e impossibili come nella favola.
“L’isola del tesoro” è possibile e irreale, senza alcun dubbio e proprio per questo è avventura senza tempo, un classico – per dirla con Calvino – che non smette mai di dire quello che ha da dire.
Da adulti si tende sempre a ricercare, per primo, il significato di un libro, il suo insegnamento, quella che alcuni definiscono “la morale”, perdendo un po’ di vista il piacere della lettura e il fascino della storia in quanto storia. Se posso dare un consiglio, di fronte a “L’isola del tesoro” di Stevenson, concedetevi la prima lettura senza pensare ad altro che a godervi l’avventura della navigazione alla ricerca del tesoro. Sarà un’esperienza che vi riporta all’infanzia, quando si giocava ai pirati e, per davvero, si faceva finta che, da qualche parte, ci fosse un forziere pieno di monete d’oro. Solo in un secondo momento, se proprio l’avventura da sola non vi basta, potete ragionare sugli insegnamenti che in questo libro sono davvero tanti:
Non ho mai visto il mare calmo intorno all’Isola del Tesoro. Il sole poteva risplendere alto, l’aria essere priva di un alito di vento, la superficie liscia e azzurra, ma i cavalloni continuavano a rovesciarsi lungo l’intera costa esterna, rombando e rombando giorno e notte: e non credo vi sia un solo punto nell’isola dove non giunga il loro fragore.
In questa frase, la ‘lezione‘ più importante: intorno all’Isola del Tesoro il mare non può essere calmo, perché il viaggio alla ricerca di un tesoro è sempre avventuroso e pieno di rischi. Ci vuole coraggio ad avventurarsi verso l’ignoto alla ricerca di qualcosa che non sappiamo davvero cosa sia, nella consapevolezza che non esiste vento favorevole per il marinaio che non sappia dove vuole andare.
R. L. Stevenson, L’isola del tesoro, Mondadori, 2016, pp. 302, € 10.00