L’incantesimo: quando l’amicizia diventa magia
“Un bambino che crede nella magia. Un anziano mago che non ci crede più. Un’amicizia che attraversa la storia e che salva la vita.”
Queste due righe contengono, di fatto l’essenza della trama di questo libro che, nonostante le sue quasi quattrocento pagine si legge davvero tutto d’un fiato, rapiti dal fascino della vicenda. È una storia che riesce a superare i confini dello spazio e del tempo con una grandissima sapienza narrativa. I due protagonisti della storia entrano in scena contemporaneamente e raccontano, alternandosi, la loro vita e trasportano il lettore dalla Praga degli anni ’30 alla Los Angeles del 2007. Ma andiamo con ordine. Siamo a Praga nel 1934, quando Mosche Goldenhirsch, figlio quindicenne di un vecchio rabbino, dopo essere rimasto orfano della madre, rimane totalmente affascinato dal mago del circo, l’Uomo Mezzaluna, e dalla sua assistente Julia. Perde la testa a tal punto da decidere di scappare di casa e di unirsi al circo nel suo lento viaggio verso la Germania. Il mago del circo, dapprima totalmente ostile al ragazzo, accetta di insegnargli il mestiere e gli concede di diventare suo apprendista. Il grande illusionista sceglie anche il nome d’arte del suo allievo mago e siccome è sabato e il ragazzino è ebreo, decide di chiamarlo Zabbatini “come Sabbat, ma con un ‘ini’ alla fine e una ‘z’ all’inizio”
A Los Angeles, nel 2007, Max Cohn è un ragazzino di dieci anni che scappa dalla finestra della sua camera, in fuga dal divorzio dei suoi genitori, del quale si sente responsabile. Tra le cianfrusaglie del padre aveva trovato un vecchio vinile del Grande Zabbatini, un mago ormai vecchio e abbandonato. Max è convinto però che la sua magia possa ancora funzionare e che un incantesimo possa far innamorare di nuovo i suoi genitori prima che in divorzio venga definitivamente firmato.
Ma cosa unisce questi due bambini? In che modo queste due vicende, così lontane nello spazio e nel tempo, si intrecciano fino a diventare un’unica divertente trama ricca di colpi di scena e di coincidenze inaspettate?
Mi ha colpito moltissimo la caratterizzazione dei due protagonisti, soprattutto nel loro essere bambini. Entrambi vivono una situazione difficile, per certi aspetti incomprensibile e più grande di loro. Mosche deve vivere le limitazioni che derivano da una colpa che non ha, perché essere ebreo non è una condizione che si può scegliere e, se ti capita, non si può evitare; Max subisce la scelta dei genitori di separarsi e cerca un espediente per invertire una situazione che percepisce drammatica. Entrambi desiderano che le cose possano sistemarsi e ad entrambi la magia sembra l’unico potente mezzo capace di fare tutto ciò che la normalità non può fare.
L’illusionismo, i giochi di prestigio sono la fuga dalla realtà che permettono di prendere respiro da una situazione vissuta come opprimente. Mosche pensa che la sua nuova identità di apprendista mago al circo, possa davvero cancellare la sua appartenenza alla “razza sbagliata” e “Max non capiva perché la scienza faticasse tanto a stare al passo con le promesse dei fumetti” e “sentiva ancora il bisogno di credere in qualcosa che fosse più reale del mondo che conosceva”.
Per entrambi il mondo magico è l’unica alternativa ad una condizione che faticano a comprendere e quindi anche ad accettare. È una grande illusione, ma è quella dimensione in cui non ci sono limiti e tutto diventa possibile. Una specie di super potere in grado di fornire ai due protagonisti una via di fuga affascinante ed avventurosa.
Ancora una volta i bambini danno agli adulti una grande lezione di vita. La speranza, l’ingegno, il non rassegnarsi prima di aver tentato il tutto per tutto, magia compresa, per arrivare alla realizzazione dei loro desideri.
E. Bergman, L’incantesimo, La nave di Teseo, 2017, pp. 381, € 18.00