L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia
“L’informatica è davvero il latino del XXI secolo, come afferma oggi chi propone la cultura tecnologica quale nuovo cardine di istruzione, ricerca e politica culturale?”
È questa la domanda alla quale Lorenzo Tomasin cerca di rispondere attraverso il libro “L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia” dell’editore Carocci. Cultura digitale, alfabetizzazione digitale, cittadinanza digitale, competenza digitale; sembra davvero che il digitale, inteso come tecnologia, sia qualcosa da cui non si può più prescindere. E sembra anche che cultura umanistica e tecnologia siano tra loro incompatibili, almeno dal punto di vista concettuale.
Tutti quanti siamo portati a pensare che ciò che è “umanistico” a fatica possa essere anche tecnologico. In realtà, non è questo il nocciolo della questione. Con “cultura umanistica” definiamo un ambito di contenuto, più precisamente
“il luogo della riflessione su due specificità fondamentali della specie umana, cioè la facoltà di linguaggio e la storia che ne è il prodotto, l’una e l’altra peculiari dell’uomo.”
La tecnologia è invece un insieme di strumenti, un mezzo al servizio dei contenuti, di qualsiasi natura essi siano. La cultura umanistica è un ambito di studio al servizio del quale la tecnologia ha senza dubbio un ruolo importante. È evidente che anche le scienze umane, come le altre scienze, non possono più prescindere dalla tecnologia come mezzo di indagine e di approfondimento. Ciò che non deve accadere però, secondo Tomasin, è che le scienze umane diventino “ostaggio” delle tecnologie.
Il ricercatore e lo studioso di materie umanistiche devono essere in grado di servirsi degli strumenti tecnologici, ma non è affatto necessario che acquisiscano una mentalità tecnologica. La cultura umanistica deve continuare ad essere il contenuto attorno al quale si concentra lo studio e non deve diventare un pretesto finalizzato all’esaltazione della tecnologia. In altri termini, la tecnologia è al servizio del contenuto dell’indagine e deve essere usato se e soltanto se è realmente funzionale all’ambito al quale si applica. Il latino, la letteratura, la filosofia, il greco, hanno delle regole e richiedono un determinato approccio mentale che deve rimanere quello di sempre e non per forza “adattarsi” alle logiche del pensiero tecnologico.
Il linguaggio umano è qualcosa di straordinario e di incredibilmente complesso e sofisticato. Tutti gli esseri viventi, animali o vegetali che siano, comunicano tra di loro, questo è assodato. Ma solo l’essere umano è stato in grado di costruire un sistema di comunicazione, basato su sintassi complesse, attraverso le quali poter generare una infinità di messaggi che vanno ben al di là della comunicazione biologica finalizzata unicamente alla sopravvivenza.
Le discipline che studiano l’uomo hanno la necessità di potersi esprimere con una articolazione di pensiero e di linguaggio che vada oltre la semplificazione tecnologica, ad esempio del pensiero binario o di quello computazionale.
In questo sta la straordinaria potenza della cultura umanistica. Potenza che oggi, paradossalmente, coincide anche con il suo limite. Viviamo in un’epoca in cui si tende a ritenere utile solo ciò che serve e che produce nell’immediato risultati tangibili e soprattutto quantificabili in termini economici di produttività e di spendibilità. Basti pensare al linguaggio con cui parliamo della cultura all’interno dell’istituzione scolastica.
Tomasin, attraverso un ragionamento molto accurato e interessante, ci mette in guardia dall’eccessiva tecnologizzazione del sapere. L’utilizzo eccessivo del mezzo tecnologico sta indiscutibilmente modificando il nostro approccio agli ambiti del sapere che, onestamente, possono farne a meno. Soprattutto nell’ambito delle scienze umane, si tende a vivere un senso di inferiorità e di incompetenza rispetto alle altre scienze e alle tecnologie. Si tende a pensare che la tecnologia sia effettivamente un vantaggio e questo fa sì che, spesso, si ceda alle lusinghe di strumenti di indagine che, di fatto sono totalmente inadeguati a produrre risultati di senso.
È importante e lo voglio ribadire. La tecnologia è un mezzo e non sempre è il più adeguato. La ricerca tecnologica è importante, ma non è sempre la migliore e soprattutto non è il modello da seguire in qualsiasi ambito di studio o professionale.
Le scienze umane studiano l’uomo, la sua intelligenza e la sua capacità critica ontologica, sociale e relazionale. Sulla base delle logiche attuali, la cultura umanistica non serve a nulla dal punto di vista delle finalità pratiche immediate.
Sapere utilizzare i mezzi tecnologici, al contrario, sembra incredibilmente più necessario, più utile e più spendibile. Ma siamo davvero sicuri che la conoscenza del mezzo abbia senso se non conosciamo noi stessi, la nostra storia, il nostro valore? Ha senso saper usare la tecnologia se non sappiamo chi siamo?
In tutte le circostanze “è la dose che fa il veleno“.
L. Tomasin, L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia, Carocci editore, 2017, pp. 143, € 12.00