Il conte di Montecristo
Da qualche tempo mi piace riprendere in mano libri che ho già letto in momenti diversi della vita: “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas è uno di questi. La prima volta che l’ho letto avevo circa dodici anni e mi ricordo che mi sembrò un’avventura colossale; a quell’età ero concentrata sulla storia, sui personaggi, sulle loro vicende e mi rendo conto adesso di non essermi soffermata quasi per niente sui significati e sulle interpretazioni alle quali le avventure di Edmond Dantès si prestano.
Credo che tutti, anche chi non ha mai letto il romanzo, ne conoscano la trama: il 24 febbraio 1815 il protagonista, Edmond Dantès arriva nel porto di Marsiglia a bordo della nave Pharaon, della quale sta per diventare capitano. È un giovane diciannovenne che ama il suo lavoro, suo padre e la sua fidanzata Mercedes che intende sposare quello stesso giorno. Ma, si sa, l’invidia è una brutta bestia, e il ragazzo cade vittima di un tranello per colpa del quale, accusato di bonapartismo, viene incarcerato nel castello di If, una prigione dalla quale è impossibile fuggire. È lì che incontra l’abate Faria, l’uomo che cambierà il suo modo di essere e il suo destino; è tramite l’abate che Dantès impara i segreti della vita, è grazie alla sua morte che riesce a fuggire dalla prigione, è per merito di quell’amicizia vera che riuscirà a vendicarsi di tutti coloro che gli hanno rovinato la vita in modo del tutto ingiusto e ingiustificato.
Come ho detto all’inizio, già solo la narrazione dei fatti avventurosi, che costituiscono la trama di questo classico senza tempo, vale la lettura del romanzo. Più di mille pagine attraverso le quali Dumas ci accompagna nell’atmosfera ottocentesca nella quale l’intera vicenda si svolge. La vera genialità de “Il conte di Montecristo”, però, diventa ancora più apprezzabile nel momento in cui, leggendo, si pone l’attenzione sul significato degli episodi che si susseguono. È di certo un romanzo di avventura, ma è anche una storia di iniziazione. Al lettore attento non può sfuggire la metamorfosi del protagonista da ragazzo ingenuo a adulto consapevole della complessità dell’animo umano e della sua importanza nelle relazioni. Il compito dell’abate Faria, matematico, scienziato, filosofo, mago, mistico, è proprio quello di trasformare il giovane ingenuo in un uomo capace di vedere oltre, di decifrare il senso delle cose, di interpretare i comportamenti e prevederne le conseguenze. Ecco perché quel Dantès che viene incarcerato ingiustamente non è lo stesso che riesce a fuggire. La sua amicizia col vecchio dai capelli bianchi e dalla lunga barba è un rito di passaggio, quel passaggio che renderà possibile la vendetta nei confronti di chi lo ha tradito. Dal castello di If esce un uomo completamente diverso: era Edmond Dantès, un giovane marinaio, ora è il Conte di Montecristo, un ricco signore degno della più nobile e ricca aristocrazia dei tempi. Era un ragazzo ingenuo, ora è pronto per riscuotere i suoi crediti. È irriconoscibile a tutti, è nelle condizioni migliori per dare corpo alla sua vendetta. Ci riuscirà? Sarà davvero in grado di andare fino in fondo, costi quello che costi?
Sono tanti gli spunti di riflessione che “Il conte di Montecristo” offre. Uno fra tutti, la chiarezza con cui permette di riflettere sulla complessità dell’animo umano con i suoi sentimenti e le sue emozioni. Le sfaccettature dell’animo umano fanno sì che non si realizzino mai le dicotomie nette bello brutto, giusto sbagliato, bianco nero, vittima carnefice; la verità è che in ognuno di noi sono presenti tutte le opzioni, che si manifestano oppure no, a seconda delle circostanze e Alexandre Dumas dimostra di esserne profondamente consapevole.
Non vorrei dilungarmi oltre, perché questo romanzo può essere apprezzato e compreso appieno solo attraverso la lettura. Davvero un classico senza tempo che non ha ancora smesso di dire quello che ha da dire, sempre prendendo a prestito le parole di Calvino.
A. Dumas, Il conte di Montecristo, Feltrinelli, 2014, pp. 1191, € 15.00