Comandante ad Auschwitz
Rudolf Höss nel suo “Comandante ad Auschwitz” si descrive così:
Sono alla fine della mia vita. Ho riportato in questo scritto tutti i fatti essenziali che mi sono accaduti in questa vita, ciò che più mi ha impressionato, ciò che più ho amato. Ho scritto fedelmente secondo verità e realtà, così come vidi e vissi gli avvenimenti. Ho tralasciato, talvolta anche dimenticato, molte cose secondarie, di molte altre non mi ricordo più con sufficiente precisione. Dopotutto non sono uno scrittore, non sono mai stato a mio agio con la penna. Senza dubbio mi sono spesso ripetuto, e spesso, probabilmente, non mi sono espresso in modo abbastanza comprensibile. Mi mancavano anche la calma e l’equilibrio interiori, necessari per potersi concentrare in un lavoro simile. Ho scritto così come mi veniva – spesso in modo confuso – ma senza artifici. Ho descritto me stesso così com’ero, come sono. La mia vita è stata molto varia e complessa. Il mio destino mi ha fatto toccare tutte le vette e tutti gli abissi della vita. La vita spesso mi ha afferrato e scrollato brutalmente, ma sono sempre riuscito a cavarmela. Non mi sono mai scoraggiato.
È una citazione un po’ lunga, ma credo sia un buon punto di partenza per provare a rendersi conto della psicologia di quest’uomo. Höss si racconta come “Comandante ad Auschwitz” all’epoca in cui, processato per crimini di guerra e condannato, era in attesa dell’esecuzione e il primo elemento agghiacciante è che scrive queste poco più che quaranta pagine autobiografiche per dimostrare ai giudici la sua innocenza. L’obiettivo è mettere in evidenza che ha solo eseguito degli ordini insindacabili, che nessuno poteva mettere in discussione e ai quali era impensabile opporsi. Non è un caso che il verbo più usato da Höss sia ‘dovere’; tutti gli episodi che descrive, dal più banale al più terribile, si sono realizzati per eseguire ordini superiori, mai per una ragione diversa. Quando era bambino la volontà insindacabile era quella del padre, in guerra occorreva obbedire e combattere, come membro delle SS l’autorità indiscussa e indiscutibile si chiamava Himmler e, salendo ai vertici della gerarchia, Hitler:
Non era possibile riflettere, discutere, interpretare questi ordini. Dovevano essere eseguiti fino in fondo, quali che si fossero le conseguenze, anche col sacrificio consapevole della propria vita, come non pochi ufficiali SS hanno fatto in guerra. (…) Ma quelli di fuori non possono capire…
Noi non possiamo capire, nessuno può capire e, in effetti, è oltre che incomprensibile anche del tutto inaccettabile. Höss si barrica dietro il suo senso del dovere che, a detta sua, è quello di tutti coloro che hanno sposato gli ideali del regime nazionalsocialista: gli ordini sono fatti per essere eseguiti, nient’altro:
tutte le emozioni umane dovevano tacere di fronte alla ferrea coerenza con la quale dovevamo attuare gli ordini del Führer.
Non c’è una sola riga di “Comandante ad Auschwitz” in cui sia possibile leggere la benché minima flessione rispetto a questa posizione; nessun momento della sua vita viene raccontato se non come dettato da una rigida disciplina e dal dovere dell’obbedienza, costi quel che costi.
Rudolf Höss parla di sé con una freddezza agghiacciante e con un distacco che sarebbe difficile da giustificare perfino se raccontasse la vita di qualcun altro. Glaciale nei confronti di se stesso, della famiglia, della guerra, di Auschwitz, la più potente macchina dello sterminio di massa di cui è stato l’ideatore, l’organizzatore, il realizzatore, il contabile. Avrebbe potuto essere un esecutore mediocre e invece no, ha fatto in modo di diventare il migliore, il più efficiente, il più capace di trovare sempre la soluzione ottimale rispetto all’obiettivo a lui assegnato.
Il diario di Höss non è certo un’opera letteraria e non nasce nemmeno con quell’intento. Il resoconto dei fatti salienti è in ordine strettamente cronologico, ma sono proprio lo stile quasi del tutto inesistente, la descrizione dei fatti oggettiva, ma banalizzata e priva di coinvolgimento emotivo attraverso la quale gli avvenimenti sono ricostruiti come altro rispetto alla loro effettiva natura, che conferiscono a queste pagine un’aria spettrale, anzi minacciosa. Minacciosa, perché siamo di fronte al racconto di fatti storici realmente accaduti, per quanto questo possa sembrare incredibile, per opera di persone normali. ‘Normali’ significa non fatte di sostanze diverse da quelle di tutti gli altri, non riconoscibili per una predisposizione genetica che possa giustificare atteggiamenti altrimenti impossibili.
Nella prefazione a questo libro, Primo Levi dice:
mi pare che questo libro dimostri in modo esemplare a che cosa possa portare un’ideologia che viene accettata con la radicalità dei tedeschi di Hitler, e degli estremisti in generale. Le ideologie possono essere buone o cattive; è bene conoscerle, confrontarle e cercare di valutarle; è sempre male sposarne una, anche se si ammanta di parole rispettabili quali Patria e Dovere.
Rudolf Höss ha eseguito degli ordini, è vero, ma l’obbedienza cieca e incondizionata è una scelta che implica una responsabilità attiva.
Rudolf Höss rimane un esempio di quanto non ci sia stato nulla di straordinario nella Germania del periodo nazista; chiunque potrebbe diventare “Comandante ad Auschwitz” se le condizioni lo permettessero ancora.
R. Höss, Comandante ad Auschwitz, Einaudi, 2014, pp. 268, € 13.00