Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo
“Non bisognerebbe affrontare le sfide del Ventunesimo secolo con l’armamentario concettuale e ideologico del Settecento, ma succede. La convivenza fra persone di provenienze diverse, portatrici di diverse esperienze, stili di vita e convinzioni, pone problemi complessi.”
Mi sembra un avvertimento sensato. Il tema razziale è complesso e ci accompagna da sempre. È stato affrontato via via con approcci adatti alle conoscenze acquisite, mentre non si sono aggiornati gli strumenti e le categorie concettuali attraverso le quali il tema viene preso in esame.
La prima forte ambiguità, come ci fa subito notare l’autore Guido Barbujani, è nella parola stessa “razza”. Dopo un periodo di oblio, è riapparsa nei discorsi quotidiani, ma la si utilizza con significati estremamente diversi.
“Si può dire ‘razza’ pensando all’intera specie umana (qualcuno ricorderà la famosa risposta di Einstein al questionario di immigrazione negli Stati Uniti: razza di appartenenza ‘umana’), ma anche per indicare una parte dell’umanità (la ‘razza bianca’), e anche una piccola parte dell’umanità (la ‘razza Piave’), o addirittura una singola famiglia (quando si dice ‘brutta razza’ oppure ‘l’ultimo della sua razza’). Può avere valenza positiva o negativa: ‘slalomista di razza’ vuol dire che uno scia bene; ma ‘razza di idiota’ non è un gran complimento.”
Uno spettro di utilizzo semantico decisamente vasto e, in quanto tale, necessariamente vago. E quando si utilizza uno stesso termine per indicare una molteplicità di oggetti diversi tra loro è quasi inevitabile creare fraintendimenti che rendono difficoltosa la reciproca comprensione. L’unico approccio di senso è necessariamente più circoscritto ed è quello di “razza biologica”, un concetto che è possibile studiare utilizzando i criteri della scienza.
Il titolo “Gli africani siamo noi” non è una provocazione, ma è la verità; proveniamo tutti dall’Africa e, progressivamente, ci siamo sparsi in tutto il pianeta. L’antropologo etnologo archeologo Andrè Leroi-Gourhand sostiene che la storia dell’umanità si fonda sui piedi. La nostra è una specie migrante, i nostri antenati si sono sempre spostati, incontrati, scontrati, mescolati, sposati, riprodotti, scambiandosi i geni, le conoscenze e le competenze. Analogamente alla cultura, che è frutto di continue commistioni e di scambi tra saperi diversi, anche il nostro patrimonio genetico è il frutto di un lungo e costante “meticciato” che ha reso possibile il manifestarsi delle differenze che erroneamente sono state definite “razze”. Parlare di razza è quindi una stortura culturale, perché non esiste nessun fondamento genetico alla base di qualsiasi “classificazione razziale” applicata al genere umano.
La razza è una sola, ma esiste il razzismo. Come si spiega? Il razzismo si basa sull’idea che sia possibile catalogare l’umanità in vari gruppi distinti e discontinui, ognuno dei quali con una sua etichetta e di fronte ai quali è impossibile sbagliare. Il razzismo si inserisce nel determinismo della necessità biologica, ovvero nella convinzione che ciò che siamo sia determinato biologicamente e, in quanto tale, sia una condizione immutabile. Sulla base di questa convinzione, sono stati prodotti innumerevoli cataloghi contenenti classificazioni razziali, ciascuno in conflitto con tutti gli altri, senza che si sia mai arrivati ad un punto di contatto. Se davvero ci fossero più razze umane, prima o poi, un accordo tra cataloghi si sarebbe dovuto trovare. L’idea che l’umanità sia distinguibile e distinta in blocchi diversi è esclusivamente un fatto di ambito culturale che non è supportato dalla genetica. In altre parole, non esiste all’interno del nostro codice genetico un solo fondamento a supporto dell’esistenza di razze umane diverse. Un esempio che potrebbe aiutare ad esplicitare la differenza sostanziale tra “necessità culturale” e “necessità biologica” è quello dell’apprendimento della lingua madre. Sappiamo che l’unica predisposizione genetica che abbiamo è al linguaggio, intesa come la possibilità di comunicare attraverso l’apprendimento del codice linguistico. Quale sia poi la lingua che il bambino apprende come lingua madre dipende dal contesto culturale all’interno del quale è inserito. Questo, perché il bambino è predisposto all’apprendimento di qualsiasi codice linguistico e, cosa ancora più interessante, impara a parlare per dimenticanza, cioè dimentica tutte le lingue che non usa, perché non sono quelle che parlano le persone dell’ambiente culturale al quale appartiene. Se esistessero davvero più razze e fossero codificate nel patrimonio genetico, allora il nostro cervello non potrebbe imparare qualsiasi lingua, ma solo quella della sua “razza di appartenenza”. I nostri geni ci permettono di definire la possibilità di parlare, ma non definiscono affatto la lingua che parliamo. Se la lingua che parliamo non dipende dal nostro DNA, allora si può ben immaginare che molti altri comportamenti e attitudini non dipendano dai nostri geni se non nel senso che essi li rendono possibili. Il resto è cultura, sono le nostre scelte e non è detto che le barriere culturali siano più facili da abbattere di quelle biologiche.
G. Barbujani, Gli africani siamo noi. Alle origini dell’uomo, Laterza, 2016, pp.137, € 15.00