A bocca chiusa
“A bocca chiusa” è il romanzo d’esordio di Stefano Bonazzi, un autore ferrarese di cui ho grande stima, che l’editore Fernandel ha deciso di ripubblicare, a quattro anni dalla prima pubblicazione, in una nuova edizione.
“L’afa d’agosto è insopportabile, soprattutto quando hai dieci anni e sei costretto a startene chiuso in casa con il nonno, una belva in gabbia la cui violenza trova sfogo su di te. E se non puoi frequentare gli altri bambini, anche tu diventi un animale solitario, destinato a crescere somigliando ogni giorno di più al tuo aguzzino.”
Questo è quello che ci rivela il retro di copertina; non molto, per fortuna, ma è tutto ciò che ci occorre sapere per fa nascere la curiosità nei confronti di una situazione che appare quanto meno insolita. Stefano Bonazzi scrive un romanzo minimale: tre personaggi, due luoghi e una struttura narrativa semplice. Un ragazzo affidato per un’estate al nonno che non è il classico nonno. Era camionista e, da un giorno all’altro, si ammala e diventa inutile, anzi meglio, si sente inutile, uno stato d’animo di gran lunga peggiore. I luoghi sono due, un dentro e un fuori dalla casa del nonno, un’ambientazione reale, ma fortemente simbolica e, di fatto, ben più articolata sia pur in una essenzialità che non viene mai meno. Dentro casa c’è una camera da letto, quella in cui vive per la maggior parte del romanzo il nonno, e c’è una sala da pranzo, sempre in penombra, al centro della quale è sistemato un tappeto rosso, l’unico spazio nel quale il protagonista, che per tutto il romanzo non ha nome, può stare. Un tappeto rosso sul quale è sparsa una montagna di lego, il gioco del protagonista, anch’esso reale, ma che permette il fantastico. Fuori casa, c’è una periferia grigia, squallida, priva di emozioni, nella quale vivono molte persone di cui si avverte l’esistenza, ma che non si vedono, semplicemente perché non servono allo svolgersi dei fatti. Occorre che ci siano, ma non che agiscano nella storia. Fuori c’è anche il balcone della casa del nonno, un ‘fuori‘ che è forse anche un ‘dentro‘ e c’è il terzo personaggio importante del romanzo. Fuori c’è Luca, amico del protagonista che non compare subito, ma che ha un ruolo fondamentale nella storia. In questo scenario a luoghi concentrici, accade poco. “A bocca chiusa” racconta solo due o tre eventi, che preludono al colpo di scena finale.
”Nonno le prese il braccio destro per il polso, lo ruotò e lo sbatté contro il vetro della porta che dava nella sala da pranzo, dov’ero seduto.”
Da questa azione terribile inizia il tutto. Terribile, perché Stefano Bonazzi ce la racconta così, senza nessun antefatto preparatorio. Una violenza che appare ancora più inaudita proprio perché improvvisa e gratuita. Da questo momento quello che conta davvero è ciò che accade all’interno dei personaggi, nelle loro menti e nei loro cuori. Il protagonista subisce un trauma che diventa il motore di tutto ciò che succede dopo, reale o immaginario che sia. È l’inizio della fine, l’inizio di una prigionia assurda su un tappeto rosso, dentro la sala da pranzo della casa di un nonno orco, in una periferia fredda e disinteressata. Una prigionia dalla quale Luca aiuta a fuggire il protagonista, dando corpo al secondo evento, ancora più terribile del braccio rotto. Una fuga verso una libertà che finisce di nuovo in una prigionia, questa volta sul balcone. Quel balcone che imprigiona contemporaneamente dentro e fuori, che isola il protagonista completamente da tutto e da tutti. Quel balcone da cui partirà il terzo evento, che però non vi racconto, perché ho già detto fin troppo e dovete leggere questo romanzo.
“A bocca chiusa” non è un giallo, è un dramma, prima familiare e poi, col procedere della narrazione, dell’esistenza. In questo dramma non c’è spazio per il bene che lotta e vince sul male. L’unica azione compiuta a fin di bene in realtà si rivelerà la scelta peggiore che potesse essere fatta. Stefano Bonazzi racconta sempre su una linea sottile a metà tra realtà e allucinazione, dove tutto, personaggi, azioni, reazioni, emozioni, pensieri, si rivela diverso da ciò che sembra. Perfino le fiabe, che hanno un ruolo determinante nella trama di “A bocca chiusa”, si collocano in linea di continuità con il tutto.
Chesterton disse che
“le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere sconfitti.”
Tutto vero, ma la domanda, in questo caso, è chi sia il drago e la risposta è tutt’altro che scontata.
Stefano Bonazzi è uno scrittore bravissimo e questo romanzo d’esordio lo dimostra subito, al primo tentativo. L’autore non fa sconti né nella trama, né nell’essenzialità dello stile narrativo. Stabilisce fin da subito un patto narrativo con il lettore, al quale chiarisce che non c’è un modo diverso per raccontare il male. Non è un romanzo facile da leggere, perché è scritto nell’unico modo possibile quando si racconta una storia come questa. Il ritmo narrativo è sempre quello giusto. Non ci sono momenti di transizione e le cose accadono esattamente quando devono accadere. Entrare nelle pagine di “A bocca chiusa” significa intraprendere un viaggio nell’animo umano dove non è sempre chiaro il confine tra realtà e immaginazione, o addirittura tra realtà e allucinazione. È una lettura che non finisce all’ultima pagina, perché è una riflessione profonda, severa ma giusta, della potenza condizionante (nel bene e nel male) delle relazioni che ciascuno di noi vive e di come, di fatto, tendiamo a replicare i modelli che conosciamo.
Il titolo? Semplicemente perfetto.
S. Bonazzi, A bocca chiusa, Fernandel, 2019, pp. 256, € 15.00