A che servono i Greci e i Romani? Una questione di civiltà e di pazienza
A che servono i Greci e i Romani? Una domanda provocatoria quella che Maurizio Bettini sceglie come titolo del suo libro. La prima provocazione è già nella scelta del verbo ‘servire’. Un approccio come questo, denota come i parametri utilitaristici dell’economia siano ormai gli unici attraverso i quali valutare se qualcosa, qualunque cosa, abbia o non abbia senso. Qualsiasi tema viene preso in considerazione se e soltanto se produce beni da utilizzare e dai quali trarre un profitto immediato. Se pensiamo alla terminologia con cui si parla della scuola, dell’istruzione e, in senso più ampio, della cultura, ci rendiamo conto che anche questo ambito non è immune dalla valutazione economica. Si parla di prodotti della cultura, di beni culturali che costituiscono l’offerta e il patrimonio dell’Italia, mentre a scuola si accumulano crediti o bisogna recuperare debiti formativi. Bettini ci ricorda però che già Gaetano Salvemini, negli anni ’50, aveva affermato che
“La coltura è la somma di tutte quelle cognizioni che non rispondono a nessuno scopo pratico, ma che si debbono possedere se si vuole essere degli esseri umani e non delle macchine specializzate. La coltura è il superfluo indispensabile.”
La cultura è quindi, se così si può dire, un lusso di prima necessità. Il senso di questa affermazione, solo apparentemente contraddittoria, è nel concetto di tempo. E sempre nel concetto di tempo sta la spiegazione del perché i parametri dell’economia moderna non possono e non dovrebbero essere utilizzati per decidere se la cultura, e quindi i Greci e i Romani, servano a qualcosa. C’è un aneddoto, che a me piace molto e che spiega il senso di queste affermazioni. Un giorno una vecchia signora andò da Filippo, re di Macedonia, per esporre un problema e quando il Re le rispose che non aveva tempo per giudicare il suo caso, la vecchia gli rispose: “Beh, allora non fare il re!”. Decidere che lo studio dei classici non serve a nulla significa ammettere che non ha alcuna importanza sapere da dove proveniamo. Significa decidere che la nostra memoria culturale collettiva non ha più alcuna ragion d’essere perché, in fondo, ci va bene l’idea di essere dei funghi spuntati dal nulla.
Un classico, secondo Italo Calvino, “è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire” e, secondo Bettini, è un’opera che bisogna continuare a leggere di generazione in generazione, perché costituisce lo strato culturale sul quale fondare il ‘nuovo’ e senza il quale nessun ‘nuovo’ può esistere. Il tema vero, quindi, non è decidere se e a che servano i Greci e i Romani, quanto piuttosto capire come agganciarli alla realtà dei giorni d’oggi. La scuola deve trovare il modo di ricreare la curiosità nei confronti di un mondo che non è definitivamente morto e sepolto, ma che continua a permeare la cultura di oggi senza che le giovani generazioni riescano più a percepire le analogie, ma solo le differenze che, ai loro occhi, sono abissali e incolmabili.
Sempre secondo Calvino,
“si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserva la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.”
“Nelle condizioni migliori per gustarli”: è questo che deve riuscire a fare la scuola, ripristinare la passione che occorre per capire e amare un passato culturale, il nostro, senza il quale non saremmo nulla.
La cultura è un processo affascinante che richiede passione, dedizione e pazienza, tanta pazienza. Il mondo di oggi è caratterizzato dalla fretta ed è per questo che il linguaggio è sempre più quello dell’economia. La cultura è un investimento a lungo termine e se non si capisce questo, allora non rimane altro che un grande rammarico.
M. Bettini, A che servono i Greci e i Romani, Einaudi, 2017, pp. 147, € 12.00