“L’avversario” è nelle certezze della nostra mente?
“Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand ha ucciso la moglie, i figli e i genitori, poi ha tentato di suicidarsi, ma invano. L’inchiesta ha rivelato che non era affatto un medico come sosteneva e, cosa ancor più difficile da credere, che non era nient’altro. Da diciott’anni mentiva, e quella menzogna non nascondeva assolutamente nulla”
Questa è la storia de L’avversario. Carrère decide di raccontarla non senza difficoltà. Difficoltà relative a quale posizione assumere, che registro narrativo adottare di fronte a un fatto di cronaca che crea, nello scrittore e anche nel lettore, un discreto imbarazzo emotivo.
“ La tragedia di cui lei è stato l’artefice e l’unico superstite mi ossessiona fin dal momento in cui l’ho appresa dai giornali.”
Era ossessionato dalla storia, ma non sapeva se avrebbe dovuto, o meglio voluto, raccontarla in terza persona semplicemente come si racconta un fatto di cronaca, oppure se si sarebbe sentito più a suo agio scegliendo un punto di vista non neutrale, entrando in prima persona nella vicenda.
Al di là dei fatti indubbiamente agghiaccianti, il vero interesse è nei confronti della psicologia di Jean-Claude. La ricostruzione dei fatti serve a Carrère per cercare di scandagliare le dinamiche psicologiche che hanno creato quel vortice assurdo che ha caratterizzato i 18 anni della vita del protagonista il cui culmine è, appunto, l’uccisione di tutta la sua famiglia, genitori compresi. Un castello di menzogne congegnato alla perfezione, che ha permesso al protagonista di inventare un altro da sé. O forse sarebbe meglio dire, che ha permesso al protagonista di inventarsi di esistere. Jean-Claude ha costruito un mondo fatto per rispondere alle aspettative che tutti avevano nei suoi confronti, un mondo in cui tutto funziona esattamente come deve. È iscritto a medicina, ma, ad un certo punto, la sua carriera universitaria si blocca. Da quel momento inizia la storia parallela: Romand smette di esistere e indossa gli abiti del personaggio Jean-Claude fino al momento in cui il castello di carte sta per cadere. Si ritrova con le spalle al muro e l’unica via di uscita che riesce ad immaginare è distruggere tutto e anche se stesso.
“Desidero farle capire che a spingermi verso di lei non è una curiosità malsana o il gusto del sensazionale. Ai miei occhi, ciò che lei ha fatto non è il gesto di un comune criminale, né di un pazzo, ma di un uomo spinto agli estremi da forze che non controlla, e vorrei mostrare all’opera proprio quelle terribili forze.”
Forze che non controlla. L’inquietudine dell’autore, che diventa anche quella del lettore, è nella condotta insensata dell’assassino. Perché decidere di inventare se stesso anziché accettare e ammettere di essere in difficoltà? Perché condannarsi a vestire i panni di un altro, a mentire a tutti su tutto? Perché decidere di sottomettersi alla inutile dicotomia tra essere e apparire? Inutile, semplicemente per il fatto che solo Jean-Claude sa di essere quello che è; il resto del mondo conosce solo il personaggio frutto della sua invenzione. Più volte, durante il processo, l’imputato ribadisce di essere “falso” solo sul piano sociale e non su quello affettivo, ma dal mio punto di vista questa affermazione non fa altro che confondere le idee di chi decide di volerci capire qualcosa.
In effetti, Carrère si trova di fronte, e mette anche il lettore di fronte, ad una questione morale. È impossibile capire davvero cosa pensa Romand in tutta questa vicenda direi anche in tutta la sua vita, reale e inventata. Nessuno di noi lo giustifica mai, neanche per un secondo. Certo è che la maestria narrativa dell’autore è tale per cui, a seconda del punto di vista che assumiamo durante la lettura, ci troviamo a porci domande drammatiche alle quali non è semplice rispondere. La famosa frase “se fosse capitato a me…” non è così semplice da completare. Romand probabilmente pensa che soddisfare appieno le aspettative di tutti nei suoi confronti sia l’unica opzione possibile, ma la domanda è se davvero gli altri avessero le aspettative che si immaginava lui. La moglie vive tutta la sua vita all’insegna della fiducia cieca accettando condizioni che sembrano davvero assurde. Ad esempio per 18 anni non può mai, per nessuna ragione, telefonare al marito in ufficio, ma solo su un cerca persone. Voi lo accettereste senza insospettirvi? Forse, o forse no. L’intera famiglia, genitori e suoceri, nutrono nei suoi confronti una fiducia incondizionata, al punto da affidare a lui, senza nessuna richiesta di garanzia, il loro intero patrimonio finanziario. E nemmeno a fronte di uno “scoperto” di 40000 dollari, la madre ritiene di dover fare altre verifiche che non siano una telefonata al figlio per ricevere rassicurazioni che, ovviamente riceve.
Sembra tutto assurdo, ma anche tutto normale.
La difficoltà di esprimere un giudizio insindacabile sulla condotta di vita del protagonista (non ovviamente sull’epilogo omicida) è la cifra della maestria di Carrère. L’autore stesso, come ho già detto, dichiara di non sapere quale punto di vista assumere. Riesce anche a raccontare questa storia con una narrazione per nulla giudicante, ma nemmeno giustificazionista. Ci obbliga a leggere questa storia e a porci domande importanti di carattere etico e morale. Chiunque può decidere di schierarsi o fingere di poter assumere una posizione categorica. Carrère non lo fa e forse anche al lettore non serve farlo. Sì, perché come facciamo a sapere se il Romand che racconta di sé durante il processo sia davvero quello autentico? Come facciamo ad essere sicuri che non sia ancora una finzione?
Credo che l’obiettivo di questa lettura sia soprattutto riflettere sulla complessità dell’animo umano, sulla indecifrabilità della mente, sulla pericolosità di pensare di vivere in un mondo fatto di certezze granitiche e immutabili. Ma anche sulla pericolosità delle abilità manipolatorie.
Una lettura che mi sento di consigliare senza alcuna esitazione.
E. Carrère, L’avversario, Adelphi, 2013, pp. 169, € 17.00