Il cappotto. Un bisogno che diventa un sogno
“in un ministero prestava servizio un funzionario, un funzionario che non si può dire fosse molto importante;”
È questa la descrizione del protagonista de “Il cappotto” che Gogol’ mette subito, all’inizio; poche parole che danno l’idea del grado di importanza di Akakij Akakievic che di mestiere è funzionario di scrittura. Un mestiere che svolge con passione, del quale si nutre, perché è l’unica cosa che ha nella sua vita. È un uomo perfettamente integrato in un sistema che non gratifica, che quasi mai fa crescere, ma nonostante questo, pur in un ambiente che lo deride e lo umilia, Akakij Akakievic trova il modo di essere appagato e di fare il suo dovere con il massimo della dedizione possibile, al punto che
“un direttore, una brava persona, volendo ricompensarlo per il lungo servizio, ordinò di affidargli qualcosa di più importante della solita ricopiatura (…). Ciò lo obbligò a un tale lavoro, che fu tutto un sudore; si terse la fronte e alfine disse: no, è meglio se mi date qualcosa da trascrivere”
Akakij Akakievic non vuole fare altro che il suo lavoro fatto bene; ha paura del cambiamento e non è abbastanza grintoso da affrontare un incarico leggermente più impegnativo della copiatura dei documenti. Però un desiderio ce l’ha. Il protagonista ha una giacchetta talmente usurata che nemmeno Petrovic, il suo amico sarto, accetta di ripararla; deve per forza pensare a un cappotto nuovo. Una necessità che gli comporta un grande sforzo economico, ma che, da decisione combattuta, diventa desiderio che anima una esistenza piatta e, fino ad allora, completamente priva di obiettivi diversi dalla routine. La decisione di acquistare un cappotto nuovo e l’attesa della sua realizzazione trasforma il protagonista di questo racconto:
“da allora era come se la sua stessa esistenza fosse diventata in un qualche modo più completa, come se si fosse sposato, come se un’altra persona vivesse con lui, come se non fosse solo, ma una piacevole compagna di vita avesse acconsentito a percorrere al suo fianco la strada della vita: e questa compagna non era altro che quello stesso cappotto (…). Era diventato in un certo qual modo più vivace, persino di carattere più fermo”.
A questo punto Gogol’ scrive un finale con il quale ci ricorda che il nostro protagonista è un perdente, un vinto, uno che non ha diritto di realizzare un sogno che potrebbe, in un cero senso, rappresentare un riscatto sociale. Il massimo che può fare Akakij Akakievic è desiderare e sognare, perché la magia del cappotto dura il tempo di una notte. “Il cappotto”, il suo più grande desiderio, si trasforma nella sua rovina totale. Un racconto breve e intenso con il quale Gogol’ riesce, in appena cento pagine, a far emergere aspetti importanti dell’animo umano. Il cappotto nuovo, necessario, si trasforma in un desiderio quasi sovversivo per un personaggio che fino a quel momento aveva trascorso la sua intera vita su un binario dal quale è impossibile deviare, senza deragliare. Il desiderio trasforma il modo di pensare di Akakij Akakievic, un sentimento che fino a quel momento non aveva mai fatto parte di lui. Quel cappotto nasce come ostacolo inevitabile e diventa poco a poco oggetto del desiderio, realizzazione di un sogno e di un riscatto mentale (e sociale) senza precedenti. Il cappotto è ciò che lo rende finalmente visibile al resto del mondo e prima ancora a se stesso, è la vittoria di una sfida senza precedenti. Senza sogni e senza obiettivi non si vive, si sopravvive. Il finale, solo apparentemente surreale, ci richiama al tema della crudeltà di cui gli uomini sanno essere capaci e della vendetta, possibile ma per certi aspetti incredibile. Ne “Il cappotto”, Gogol’ mette in scena due realtà diverse tra loro, a tratti opposte: da un lato Akakij, un impiegatuccio innocuo che si accontenta di fare bene ciò che sa fare, dall’altra il resto del mondo che sembra non possa fare a meno di andarlo a cercare per infastidirlo, prima, e farlo morire di dolore poi. In mezzo c’è il cappotto, un oggetto-personaggio che dà la vita dopo una estenuante conquista e subito dopo, la toglie con una rapidità tale che quasi si fatica a rendersene conto. Gogol’ usa il cappotto per raccontare una storia che è apparsa per la prima volta nel 1842, ma che potrebbe essere stata scritta oggi. Molto bella anche la traduzione di Clemente Rebora che, pur mantenendo i tratti tipici della narrazione russa ottocentesca, riesce a far emergere la contemporaneità di questa parabola senza tempo, che racconta il reale attraverso l’irreale.
N. Gogol, Il cappotto, Feltrinelli, 2014, pp. 100, € 6.50