La vergogna
“Era il 15 giugno 1952. La prima data precisa e certa della mia infanzia. Fino ad allora c’è solo un susseguirsi di date e giorni scritti alla lavagna e sui quaderni.”
Annie Ernaux finisce di scrivere “La vergogna”, un altro capitolo della sua autobiografia, nel 1996. Un romanzo di poco più di cento pagine in cui l’autrice racconta un solo episodio, drammatico al punto da diventare uno spartiacque tra il prima e il dopo. Un episodio talmente scioccante e decisivo per lei, allora dodicenne, che quel pomeriggio del 15 giugno 1952 assume la stessa funzione che ha assunto la nascita di Cristo per la storia che da quel momento si divide tra avanti e dopo Cristo. Lo so, è un paragone molto forte, ma per Annie è esattamente così.
“Mio padre ha voluto uccidere mia madre una domenica di giugno, nel primo pomeriggio”.
È la frase iniziale del libro, essenziale, lapidaria, distaccata, completa.
Un incipit che contiene tutto ciò che accade, un unico episodio che verrà poi meglio esplicitato nei particolari, ma qui c’è tutto. Quel pomeriggio il padre, sopraffatto da un attacco d’ira troppo a lungo repressa, aveva tentato di uccidere la madre con una roncola da legno staccata dal ceppo in cui era conficcata di solito. Annie assiste alla scena e ci dice: “gridavo «aiuto!» con tutte le mie forze” mentre il padre “ripete «tu che piangi a fare, a te mica ho fatto niente»” e la madre, per tranquillizzarla “dice «su, è passata»”. Solo poche pagine dopo, l’autrice ci fa sapere che
“La scena non si è mai ripetuta. Mio padre è morto quindici anni dopo, in un’altra domenica di giugno.”
È passato molto tempo prima che Annie Ernaux riuscisse a parlarne anche solo con se stessa e il momento in cui ci riesce è quello in cui scrive questo libro, di cui la vergogna è la vera protagonista. La scena del tentato omicidio da parte del padre è raccontata come un fermo immagine, un’istantanea. Un unico gesto, un attimo di rabbia tanto inspiegabile quanto violenta, un’immagine che nessuno ha visto e che nemmeno i protagonisti guarderanno più. Una foto partendo dalla quale la Ernaux ci racconta quel periodo della sua vita facendo vedere anche a noi due fotografie, queste reali anche se sbiadite, che rappresentano momenti chiave per capire che cosa lei stessa ha provato in quella che le sembra la più indifesa dell’età, ovvero l’adolescenza dalla quale è uscita per diventare adulta in modo sconcertante e violento, per entrare in un tempo in cui non avrebbe più smesso di provare vergogna.
Quando tutto questo accade lei è
“una ragazzina dalla faccia piena, liscia, con gli zigomi pronunciati, il naso a patata dalle narici larghe. Gli occhiali chiari con la montatura spessa le coprono buona parte delle gote. Gli occhi fissano intensi l’obiettivo. I capelli corti, con la permanente, sbucano sul davanti e sul retro della cuffietta, da cui pende il nastrino del velo legato lasco sotto il mento.”
Questa fotografia ci restituisce una bambina bruttina e timida, che la Ernaux che scrive queste pagine fatica a riconoscere. Di lei ci dice che frequentava la scuola cattolica e che era bravissima, motivo per cui le sue compagne la tenevano a distanza. La scelta della scuola cattolica è l’unica forma di elevazione sociale che la madre si concede, perché vorrebbe che la figlia vivesse un contesto migliore rispetto a quello suo e del marito che sono commercianti e gestiscono un “bar-drogheria-emporio” nel quale lavorano e vivono.
La casa-bar-drogheria-emporio da un lato e la scuola cattolica dall’altro costituiscono il perimetro angusto e asfittico nel quale Annie Ernaux dodicenne vive e studia. L’unica evasione da questo scenario claustrofobico è un viaggio con il padre a Lourdes, quello descritto nella seconda foto.
Una indicazione preziosa di che cosa sia per lei la scrittura è subito in esergo al libro:
“Il linguaggio non è la verità. È il nostro modo di esistere nel mondo.” (Paul Auster)
È tenendo presente questa chiave di lettura che possiamo apprezzare il modo di scrivere di un’autrice capace di toccare le corde più intime della sensibilità del lettore e di coinvolgerlo in situazioni rispetto alle quali è impossibile rimanere indifferenti. È una scrittura lapidaria, oggettiva, distaccata, alla quale Annie Ernaux arriva solo quando questa scena, che per lei
“è sempre stata un’immagine priva di parole (…) è diventata una scena per gli altri”.
Il perché del titolo “La vergogna” è spiegato dall’autrice durante tutto il racconto, ma raggiunge il suo apice alla fine del libro. È una vergogna che affonda le sue radici nell’ubriachezza del padre, nella povertà della sua famiglia, nella latrina in cortile, nel dormire tutti e tre nella stessa stanza, nella volgarità della madre, nella promiscuità tra gli ambienti di lavoro e di vita. È la vergogna del quotidiano dell’infanzia di Annie, la vergogna che deriva dall’avere un unico chiodo fisso nei confronti degli altri, contenuto nella domanda “cosa penseranno gli altri di noi?”
Un romanzo di grande coraggio, con il quale la scrittrice ci porta nel suo intimo, nella sua vergogna, perché
“forse la narrazione, ogni narrazione, rende normale qualunque gesto, persino il più drammatico.”
A. Ernaux, La vergogna, L’orma ed, 2018, pp. 125, € 15.00 (trad. L. Flabbi)